"La memoria e la storia: la nostra responsabilità verso il passato", intervento di Flores D'Arcais in consiglio comunale

Le parole del professor Marcello Flores D’Arcais, docente di Storia comparata e Storia dei diritti umani all'Università di Siena, hanno aperto oggi il consiglio comunale di Siena, convocato in seduta straordinaria per il "Giorno del Ricordo"

Di Redazione | 9 Febbraio 2024 alle 11:32

E’ stato convocato oggi il Consiglio Comunale di Siena in seduta straordinaria in occasione del “Giorno del Ricordo”, in memoria delle vittime delle Foibe e dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati. All’inizio della seduta c’è stato lintervento del professor Marcello Flores D’Arcais, docente di Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena (dove dirige anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies) sul tema “La memoria e la storia: la nostra responsabilità verso il passato”. Ecco il suo intervento

“Vorrei innanzitutto ringraziare il presidente del Consiglio Comunale dott. Davide Ciacci per l’invito che mi ha fatto, permettendomi di tornare in quest’aula dopo molti anni. Il Giorno del Ricordo ha esattamente vent’anni. Fu istituita nel marzo 2004 per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Proprio in virtù di questa ormai lunga tradizione sembrerebbe ridondante ricordare l’esperienza storica che ne è alla base, anche se le riflessioni che questa data può suggerire sono molteplici ed è quindi importante, non solo in omaggio alla legge memoriale voluta dal nostro Parlamento, continuare a parlarne.

Tutte le leggi memoriali – forse perché istituite a oltre mezzo secolo di distanza dai fatti che richiamavano – sono state a volte oggetto di polemiche, oltre che dell’ovvio dibattito storiografico che inevitabilmente, e fortunatamente, continua offrire nuovi spunti interpretativi, nuova documentazione, narrazioni più incisive. L’oggetto storico alla base del Giorno del Ricordo – le foibe e l’esodo istriano-dalmata – ha avuto un tasso polemico probabilmente maggiore perché si è trattato di un evento che, per la stragrande maggioranza degli italiani, è stato conosciuto e approfondito solo abbastanza di recente. Anche la Shoah, del resto, che è stata alla base della legge memoriale che ha preceduto di quasi quattro anni quella che celebriamo oggi, ha avuto la possibilità di essere conosciuta a livello di massa soltanto alla fine degli anni ’70, grazie al fiorire di memorie, diari, racconti, studi storici ma soprattutto di un serial televisivo, Holocaust, mandato in onda negli Stati Uniti nel 1978 e subito dopo anche in Italia e Germania.

Spero mi permetterete un ricordo personale. Ho iniziato fortunatamente molto giovane il mio insegnamento universitario, a Trieste nel 1975. Lì, l’anno successivo, ci sarebbe stato il processo ad alcuni responsabili della Risiera di San Sabba, l’unico esemplare di lager nazista in Italia, ma nello stesso tempo dei giovani ricercatori avevano iniziato a indagare e scrivere, sulla scorta di una nuova e ampia documentazione archivistica, delle foibe e dell’esodo. Ricordo che domandai perché non si portasse a conoscenza di un più vasto pubblico la massa di informazioni raccolte e le ipotesi interpretative che iniziavano a essere elaborate. La risposta che mi venne, anche da grandi e autorevoli storici, che più tardi ne avrebbero parlato e discusso, fu che non si poteva perché l’argomento foibe-esodo a Trieste veniva subito strumentalizzato politicamente e si rischiava così di non poter svolgere un’adeguata opera di informazione e di educazione storica.

Ancora oggi io sono convinto – come lo sono per ogni evento storico, grandioso o tragico esso sia – che proprio il fatto di non parlarne, appena vi era la possibilità di nuove conoscenze, ha costituito un errore imperdonabile, che ha alimentato la prosecuzione di polemiche a volte strumentali, e ha soprattutto ritardato che la conoscenza e la consapevolezza collettiva su quegli eventi potesse essere costruita e approfondita.

Proverò, adesso, a riassumere quali sono i risultati conseguiti dalla ricerca storica e a dare qualche suggerimento su alcune ipotesi interpretative che ancora dividono, tenendo presente che se nella legge istitutiva si è voluto parlare della “complessa vicenda del confine orientale”, noi dobbiamo continuare a fare in modo che quella complessità venga adeguatamente conosciuta. Se forse nei primi anni è stato comprensibile un racconto sintetico, minimalista, e probabilmente un po’ schematico, perché occorreva ribadire la verità storica di alcuni fatti, oggi dobbiamo avere la responsabilità, soprattutto nei confronti dei giovani (per i quali, permettetemelo di ricordarlo, quegli eventi sono lontani come lo erano dalla mia generazione la Breccia di Porta Pia e da molti di voi la battaglia di Adua o l’uccisione di Umberto I), la responsabilità, dicevo, di raccontare la storia nella sua complessità.

Dirò cose che ovviamente già sapete, ma è importante ricordare i fondamenti di ogni avvenimento storico: il contesto, i fatti, l’interpretazione.

Il contesto è quello della seconda guerra mondiale, e in modo particolare di territori  che l’Italia possiede dagli anni successivi alla prima guerra mondiale: territori che hanno visto, durante il fascismo, un’opera forzata di snazionalizzazione delle minoranze slovene e croate, di violenza contro di loro, a partire dall’incendio del Narodni Dom nel luglio 1920 e fino alle condanne a morte da parte del Tribunale special fascista (delle 31 condanne a morte eseguite ben 26 riguardavano cittadini italiani di lingua slovena o croata). Nella guerra l’Italia fascista partecipò da subito, nell’aprile 1941, all’invasione del Regno di Jugoslavia, annettendosi la provincia di Lubiana e ampliando le provincie di Fiume e della Dalmazia e operando con forme di violenza che colpirono spesso i civili tra il 1941 e il 1943, come indicava la circolare 3C del generale Roatta del 1° marzo 1942, secondo cui “tutti devono essere considerati nemici”, “non si devono fare prigionieri”, il trattamento “non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente, ma bensì da quella ‘testa per dente’”.

Questo è il retroterra, di guerra e violenza, che costituisce un contesto che non va dimenticato, ancora poco conosciuto, che il Presidente Mattarella ha sempre voluto ricordare, ma che non può in ogni modo essere considerato come giustificazione per le violenze che hanno luogo in Istria nel settembre 1943, nei giorni immediatamente successivi alla firma dell’armistizio dell’8 settembre.

Quelle che sono diventate note come le «foibe istriane» riguardano un massacro che ha luogo mentre si combatte la prima grande battaglia partigiana, quella di Gorizia, e che riguarda l’intera penisola istriana, anche se il suo centro sarà la cittadina di Pisino. Le vittime di queste prime foibe sono gerarchi e funzionari civili e militari dell’amministrazione fascista, ma anche possidenti e notabili, chiunque rappresenti agli occhi degli insorti la minoranza italiana che ha dominato sulla maggioranza slovena e croata dell’Istria. L’insurrezione è, inizialmente, largamente spontanea, accanto a reparti di partigiani jugoslavi vi è la violenza dei contadini contro i proprietari terrieri italiani. Nel castello di Montecuccoli a Pisino s’instaura un comitato rivoluzionario, che ordina decine di esecuzioni, prima nelle cave di bauxite e poi, dopo la fuga di un condannato, nelle foibe vicine. Al di là delle uccisioni maggiormente spontanee, quelle del tribunale rivoluzionario riguardano i «nemici del popolo», una categoria ampia in cui entravano non solo fascisti e collaboratori del regime ma chiunque non si schierava apertamente con l’esercito partigiano.

Diverso il caso delle foibe triestine, che sono il luogo di uccisioni e massacri compiuti dall’esercito di liberazione jugoslavo nel maggio 1945, che è giunto per prima a liberare Trieste e dintorni dalle truppe nazifasciste e che pratica un’intensa violenza prima che gli accordi con le truppe alleate firmati a Belgrado il 9 giugno congelino la situazione in attesa del trattato del settembre 1947. I quaranta giorni dell’occupazione di Trieste sono caratterizzati dal controllo capillare dell’OZNA, la polizia segreta jugoslava ispirata al modello sovietico: le violenze sono progettate ed eseguite da un potere politico-statale (la nuova Jugoslavia comunista) e non più da gruppi spesso incontrollati che cercano vendetta per la passata oppressione. Non è un caso se già il 30 marzo il comitato centrale del partito comunista sloveno aveva scritto: “Tutti gli elementi ostili devono essere imprigionati e consegnati all’Ozna. Va seguito il principio di non concedere troppa democrazia. Epurare subito, però non sulla base della nazionalità, ma del fascismo. Tra Trieste e Gorizia sono arrestate tra 10 e 12 mila persone: molti sono fascisti e collaboratori, ma dal momento che è sufficiente il sospetto, tutti coloro che sono contrari a una Venezia Giulia jugoslava e comunista possono essere perseguiti. La scelta della repressione è politica, anche se inevitabilmente colpisce esclusivamente gli italiani, verso cui sono in molti, nell’esercito di liberazione jugoslavo, a nutrire un’ostilità che non è soltanto politica ma anche nazionale. La discriminante di fondo, però, è l’accettazione o il rifiuto del nuovo potere che i partigiani di Tito vogliono imporre. Ha riassunto bene la questione interpretativa di fondo forse il maggiore studioso di queste vicende, Raoul Pupo:

“L’obiettivo della repressione sono stati gli italiani in quanto italiani»? è falso se

Il termine «italiano» viene utilizzato nel suo significato etnico, perché una prospettiva del genere è estranea alle linee-guida della repressione, che dicono il contrario; è invece vera se «italiano» viene inteso come una categoria politica, espressione di appartenenza allo stato italiano, perché questa sì, viene considerata colpa grave che può condurre alla morte”.

E infatti tra le vittime delle foibe troviamo non soltanto aguzzini fascisti che hanno collaborato con le autorità naziste di occupazione ma membri della Guardia di Finanza che hanno partecipato all’insurrezione antitedesca e addirittura membri del Corpo volontari della libertà e membri del Comitati di liberazione nazionale triestino.

Il simbolo indiscusso delle stragi del maggio 1945, delle foibe giuliane, è la foiba di Basovizza, che si trova vicino al poligono militare dove nel 1930 erano stati giustiziati quattro sloveni condannati a morte dal Tribunale speciale fascista. Qui, dove già erano stati gettati i cadaveri dei tedeschi durante l’insurrezione, il tribunale militare della IV armata jugoslava condanna circa 500 persone, che verranno fucilate e gettate nella vecchia miniera di carbone abbandonata. I tentativi di recuperare i corpi nel dopoguerra falliranno, per la grande mole di detriti presenti, di carcasse di animali, di munizioni inesplose. Supposizioni basate sulla profondità fanno salire il numero dei possibili infoibati di Basovizza a 1500 e poi addirittura a 2500, in una guerra di numeri che soltanto gli studi successivi proverà a sciogliere: e che individuerà in circa 3000-35000 vittime gli uccisi nelle foibe giuliane nel maggio 1945.

Come venne scritto nel 2000 nella relazione finale della Commissione storico-culturale italo-slovena: “Tali stragi si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico predeterminato… un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo”.

La violenza delle foibe non va confusa con una violenza diversa, che ha luogo due-tre anni dopo e che riguarda l’esodo cui furono spinti e spesso costretti centinaia di migliaia di abitanti dell’Istria e della Dalmazia, in gran parte italiani ma spesso che si autodefinivano soltanto come istriani e che parlavano soltanto il dialetto istro-veneto. Chi fugge lo fa perché non vuole vivere in un regime totalitario che si mostra sempre più dittatoriale, che discrimina le minoranze linguistiche e nazionali malgrado una parità formale sul terreno legislativo e le considera non affidabili e inclini a divenire «nemiche del popolo». Nel censimento del 1947, fatto in seguito al trattato di pace, l’opzione per la cittadinanza italiana diventa più numerosa del numero degli italiani, segno di una volontà di fuggire dal paese, che le autorità jugoslave cercheranno di impedire con complicazioni burocratiche e a volte con la violenza. Il dramma dell’esodo non fu solo dover abbandonare terre e averi dove si era vissuti per generazioni, ma anche quello di un’accoglienza ambigua e spesso ostile nell’Italia che cercava di ricostruirsi dalle distruzioni della guerra.

Vorrei terminare ricordando il momento di maggiore speranza per la ricomposizione di memorie divise che si è avuta pochi anni addietro. Nel luglio del 2020 il Presidente Sergio Mattarella, insieme al suo omologo della Slovenia Boris Pahor, si tennero per mano di fronte alla foiba di Basovizza, prima di rendere omaggio al cippo degli antifascisti sloveni condannati dal Tribunale speciale fascista. “Le esperienze dolorose sofferte dalle popolazioni di queste terre non si dimenticano” ha ricordato Mattarella. “Proprio per questa ragione il tempo presente e l’avvenire chiamano al senso di responsabilità a compiere una scelta tra fare di quelle sofferenze patite da una parte e dall’altra l’unico oggetto dei nostri pensieri coltivando i sentimenti di rancore, oppure al contrario farne patrimonio comune nel ricordo e nel rispetto, sviluppando collaborazione, amicizia, condivisione del futuro. In nome dei valori oggi comuni: libertà democrazia pace”.



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