Quasi quattro ore di udienza, un interrogatorio incalzante e dichiarazioni che potrebbero segnare una svolta nel processo per riciclaggio aggravato dalla finalità mafiosa, in corso davanti al Tribunale di Siena. Nell’aula Bachelet, al terzo piano del Palazzo di giustizia, questa mattina – 27 novembre 2025 – si è celebrata una delle udienze più significative nella storia recente del foro senese, con al centro la vicenda dell’azienda agricola San Galgano di Chiusdino, posta sotto sequestro nel gennaio 2022 a seguito di un’articolata indagine condotta dalla Squadra Mobile di Firenze e dalla Direzione investigativa antimafia, e tuttora sottoposta a vincolo giudiziario.
Una vicenda che intreccia business agricolo, flussi di denaro illecito e presunti legami con la ‘ndrangheta calabrese, in particolare con la cosca Grande Aracri di Cutro e con la “locale” Manfreda di Petilia Policastro, ad essa affiliata.
Il collegio giudicante, presieduto dal dottor Fabio Frangini e composto dai giudici Alessandro Maria Solivetti Flacchi e Simone Spina, ha ascoltato in videoconferenza, da località protetta, il collaboratore di giustizia Salvatore Muto, assistito dall’avvocatessa Adriana Fiormonti. In aula, presenti anche i due imputati: Edo Commisso, 60 anni, originario di Marcedusa (Catanzaro), e Francesco Saporito, 83 anni, di Petilia Policastro (Crotone), entrambi chiamati a rispondere dell’impiego di presunto denaro mafioso – almeno un milione e mezzo di euro – nell’acquisto e nella gestione della San Galgano.
Muto, figura chiave del processo Aemilia e collaboratore di giustizia dal 2017, è stato incalzato per quasi tre ore dal sostituto procuratore Antonino Nastasi, oggi alla Procura di Firenze, e dagli avvocati della difesa. Nonostante il cognome, ha parlato a lungo e con dovizia di particolari: “Io venivo spesso a Siena per caccia, in particolare fagiani e lepri. Mi divertivo. Ma in più occasioni, emergeva un certo nervosismo riguardo all’azienda di San Galgano, che secondo i capi non era stato un investimento produttivo. Nonostante i contributi che arrivavano dalla Comunità europea, erano sorte molte diatribe interne soprattutto per le corrispondenze di soldi. Per l’acquisto dell’azienda furono emesse fatturazioni inesistenti. Erano soldi che dovevano essere ripuliti e solo in parte vennero restituiti”.
Il pentito, che dal 2006 era stato braccio destro del “padrino” Francesco Lamanna, incaricato di “assestare la ‘ndrangheta al nord”, ha ricostruito la compravendita dell’azienda nel comune di Chiusdino dell’agosto 2007: un affare da oltre 350 ettari di terreni, poderi e fabbricati rurali per un valore commerciale di circa 5 milioni di euro, con la copertura di una società cooperativa agricola.
Secondo l’accusa, Saporito sarebbe stato l’acquirente, Commisso l’intermediario incaricato di sovrintendere agli interessi della cosca in Toscana. Il contratto notò anche la cessione dei titoli di aiuto agricolo della Ue, ma la Dda ritiene che, oltre alla cifra dichiarata, siano stati consegnati in contanti almeno 1,5 milioni di euro di provenienza mafiosa. “Tutta l’attività d’indagine”, hanno spiegato gli investigatori, “ha trovato ulteriori riscontri volti a consolidare l’ipotesi investigativa riguardante sia la ricostruzione degli investimenti effettuati in Toscana, sia i legami con soggetti appartenenti alle cosche calabresi”. Le indagini, infatti, hanno ricostruito come è stato stipulato un contratto per l’acquisto di terreni e fabbricati rurali, con pagamento solo in parte tracciato e in parte avvenuto in contanti.
Durante l’esame, Muto ha fornito nomi e cognomi di numerosi presunti affiliati, tra cui “un paio che definivo ‘soldati’. Erano persone che contavano perché avevano partecipato a diversi omicidi”. Ha anche parlato di una figura del posto che lavorava all’azienda, spaventata da uno degli indagati: “Andai a parlarci per tranquillizzarlo perché non volevamo che si generassero problemi”.
I due imputati – che hanno seguito attentamente tutta l’udienza – sono accusati di aver riciclato e impiegato denaro di provenienza mafiosa all’interno dell’attività agricola, con l’aggravante di aver agevolato la cosca Grande Aracri. Le altre aziende agricole già gestite da Commisso in Toscana sono risultate, secondo la Dia, estranee all’inchiesta, ma il pentito ha confermato che erano oggetto di attenzione da parte delle cosche.
Durante il controesame, Muto ha risposto alle domande dei difensori. “La prima volta degli investimenti in Toscana l’ho saputo nel 2009 o nel 2008, non ricordo bene. Io ho avuto un ruolo minimo però su questa storia”, ha detto rivolgendosi a uno degli avvocati. Alla fine, si è rivolto direttamente al collegio: “Mi fa male accusare, ma sono cose che ho vissuto. Io ho cambiato vita, ma possono cambiare anche loro. Io quello che sapevo l’ho detto”.
Il presidente Frangini ha chiuso: “Lei in qualità di testimone doveva rispondere secondo verità. Il suo percorso è personale, gli altri decidono il loro. Capisco che le ha fatto male tornare indietro nel tempo, ma era necessario. Grazie”.
Il processo proseguirà con udienze calendarizzate per il 12 febbraio (attesi tre interrogatori, tra cui la ex proprietaria dell’azienda), il 12 marzo e il 9 aprile 2026. Tutte si svolgeranno dalle 10.30 alle 16.30, con 45 minuti di pausa come disposto dal presidente Frangini.
Un procedimento delicato e pieno di tensione, che a Siena non si ricorda dai tempi di Suvignano e che tiene alta l’attenzione su come la criminalità organizzata tenti di insinuarsi anche nei territori più tranquilli, sfruttando la crisi economica e i contributi europei per riciclare capitali illeciti e consolidare la propria presenza.