L'inno della Robur tra passato e presente

Di Redazione | 28 Gennaio 2022 alle 17:39

L'inno della Robur tra passato e presente

“Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno”, diceva Cesare Pavese. Ed è andata un po’ così per quanto riguarda l’inno della nostra amata Robur, quello che ancora saluta baldanzoso l’ingresso in campo “dell’undici del Siena” nelle partite allo stadio Franchi.

Di quell’inno ora si conoscono l’autore della musica, Mario Valensin, e quello del testo, Gualtiero Merlotti, che sono rimasti a lungo sconosciuti.

Valensin era un medico senese, che era però anche un ottimo violinista, tanto che faceva parte dell’orchestra comunale e che, alla fine degli anni 40, mise in musica le parole scritte, un ventennio prima, da un poeta senese ed autore di sonetti, Gualtiero Merlotti appunto. L’accompagnamento al pianoforte era del maestro Rolando Brandani e la voce del tenore Alessandro Ciani.

“Nel 2002 fu deciso di incidere di nuovo il brano – racconta Franco Baldi che è la voce solista della versione attuale – perché erano rimasti solo dei frammenti di suoni e voci di una registrazione magnetica tratta a sua volta da un disco di bachelite a 78 giri, che ormai è andato perduto. Fu ricostruita la musica e le parole furono recuperate grazie a due anziani componenti della Corale senese – Angiolino Petri e Antonio Satta – che l’avevano cantata la prima volta. Non riuscimmo però a risalire agli autori perché non c’era nessuna documentazione che ci permise di farlo”.

L’anello mancante della vicenda è stato fornito dallo storico senese Giovanni Mazzini che, in occasione della Giornata della Memoria, ha pubblicato un post in cui racconta le vicissitudini della famiglia ebrea di Mario Valensin. Eccolo.

“Forse non molti sanno chi è l’autore della musica dell’inno della gloriosa Associazione Calcio Siena, o Robur se preferite. Si chiamava Mario Valensin, ed era un valido dottore e virologo, nonché medico sociale della squadra bianconera, che si dilettava anche di musica. Suonava benissimo il violino, fece parte anche dell’orchestra comunale senese, scriveva canzoni e poesie. E così si ritrovò a musicare quelle parole che, anche se oggi ci fanno un po’ sorridere, ci inorgogliscono ogni volta che il Siena scende in campo: “S’avanza l’undici del Siena, che il cor c’infiamma, che c’incatena…”.

Mario Valensin, laureato in Medicina nel 1928, lavorò all’ospedale di Santa Maria della Scala fino al 1932, quando entrò all’Istituto Sclavo di cui fu vicedirettore fino alla pensione. Il dottor Valensin apparteneva ad una nota famiglia ebrea della città (in realtà Levi, che cambiarono il cognome chissà quando, per evidenti motivi razziali): suo padre Gusmano e suo nonno Egisto erano apprezzatissimi sarti, proprietari di un rinomato negozio di stoffe in via di Città. Non erano molto osservanti delle pratiche religiose della loro fede, giusto lo stretto necessario; erano poco ortodossi soprattutto in campo alimentare… Ma questo non servì certo ai Valensin ad evitare le conseguenze delle infami leggi razziali, promulgate nel 1938. Finché, dopo l’8 settembre del 1943, la situazione non divenne repentinamente tragica. Già spostatasi in una villa nei pressi di Siena durante l’estate (il dottor Valensin abitava nell’Istrice), la famiglia di Mario venne avvertita dalla moglie di Achille Sclavo, precipitatasi in calesse alle 6 di mattina, dell’imminente rastrellamento degli ebrei senesi. Costretti a fuggire e a nascondersi in posti diversi, i Valensin salutarono per l’ultima volta il vecchio sarto Gusmano, già malato, con i baffi intrisi di lacrime. La moglie e i figli di Mario vennero nascosti per più di 8 mesi in una cella del convento di Monastero, dove le monache si distinsero per genuina carità cristiana. Si poteva uscire solo di notte, quando Mario, che continuava a lavorare di nascosto all’Istituto Sclavo, veniva a trovare la famiglia condotto in calesse – a rischio della vita – dal capo stalliere Renato Bindi, da cui il dottor Valensin era anche generosamente ospitato. Anche altre furono le persone che, disinteressatamente, aiutarono i Valensin a scampare alla deportazione: i primi contadini che li ospitarono, un oscuro boscaiolo presso il quale ripararono durante le perquisizioni dei nazifascisti al monastero, medici che assistettero gli anziani della famiglia (Gusmano morì all’ospedale, nella primavera del ’44), i colleghi dello “Sclavo”. Terminata la guerra almeno a Siena, la famiglia Valensin potette finalmente riunirsi, nella commozione del mortale pericolo scampato, ma portando per sempre impressi nell’anima i ricordi tremendi e le angosce inaudite di quei mesi tragici. E noi, con loro, non vogliamo dimenticare quanto è successo. Perché non debba accadere mai più.

“Su! Forza, Siena! Dove sei tu c’è la tua foga bella…”.



Articoli correlati