Assoluzione collettiva per il reato più grave: il processo sul presunto racket delle “finte badanti” si conclude senza riconoscere l’associazione a delinquere. Una sentenza attesa da mesi, un procedimento che ha tenuto la provincia di Siena con il fiato sospeso. Questa mattina, al primo piano del Palazzo di Giustizia, il Gup Andrea Grandinetti ha scritto la parola fine — almeno per ora — sul presunto sistema illecito che avrebbe gestito una rete di documenti falsi e permessi di soggiorno pilotati, un’indagine che quasi tre anni fa aveva travolto la Valdichiana fino a spingersi oltre confine, in Tunisia, tra bonifici sospetti e centinaia di pratiche irregolari.
Oggi la verità giudiziaria ha una certezza: l’associazione a delinquere non c’è. Tutti assolti gli imputati coinvolti, tre cinquantenni, tre quarantenni e due giovani trentenni originari del Mali e della Tunisia. Lo aveva chiesto la difesa, lo ha deciso il giudice, che si è ritirato in camera di consiglio e ha sciolto il nodo in meno di un’ora.
La procura, con il Pm, dottoressa Elisa Vieri, aveva delineato un quadro pesante: le richieste erano di sei anni e otto mesi per il principale indagato, nato a San Giuseppe Vesuviano nel 1978 e quattro anni per altri due tra i più coinvolti, una donna di Avezzano classe 1976 e un cagliaritano di Barumi nato nel 1967. Oltre alle pene accessorie, una richiesta di un anno per l’imputato tunisino e ulteriori sanzioni per tutti.
Il teorema dell’accusa: una società di servizi alla persona che dal maggio 2021 avrebbe assunto 347 badanti stranieri, ma solo 58 realmente impiegati, mentre gli altri avrebbero ricevuto, dietro compenso fra i 50 e i 4mila euro, documenti “chiavi in mano” per ottenere il permesso di soggiorno. In mezzo, bonifici verso la Tunisia, società schermate, dieci mesi di intercettazioni e 14 perquisizioni tra Toscana, Lombardia, Abruzzo e Lazio.
La sentenza, però, ha smontato l’impianto accusatorio: il reato associativo non regge. Restano solo alcuni episodi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e truffa, mentre la cornice criminale è stata ridimensionata. La “mente”, il quarantasettenne campano è stato condannato a un anno e otto mesi, con attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, solo per due dei tre reati contestati. Assolto dal terzo capo d’imputazione e, come detto, dal reato di associazione a delinquere. Il cinquantottenne sardo, pena di un anno e sanzione pecuniaria di 467 euro, anche lui assolto per uno dei tre capi d’imputazione relativi all’immigrazione clandestina. La quarantanovenne abruzzese è stata condannata a un anno e quattro mesi con assoluzioni su altri capi minori. Il cinquantatreenne pugliese, originario di San Severo in provincia di Foggia, ad un anno e quattro mesi, pena sospesa. Per il georgiano di 59 anni condanna a undici mesi di reclusione. Un nigeriano di 45 anni e un maliano di 33 anni hanno patteggiato rispettivamente 12 e 9 mesi, convertiti in lavori di pubblica utilità. Per il trentaduenne tunisino, assoluzione dall’accusa di truffa aggravata.
Il collegio difensivo ha visto impegnati Alessandro Betti (che ha difeso il campano, il sardo e il tunisino), Luigi Nicola Fiorino (la donna abruzzese), Ilaria Marini (l’uomo pugliese), Angelo Giuliani (il nigeriano e il maliano) e Angelo Greco (difensore d’ufficio del georgiano). Non ci sono state repliche del pubblico ministero dopo le arringhe difensive. La camera di consiglio è stata rapida, le motivazioni saranno depositate entro 15 giorni.
“Sono molto soddisfatto perché c’è stata l’assoluzione per il reato più grave ovvero l’associazione a delinquere. Il giudice ha compreso la struttura della condotta criminale, ma non come gruppo criminale strutturato. Inoltre è stata molto importante l’assoluzione per l’unico imputato con l’accusa di truffa aggravata in quanto non sono emersi elementi a suo carico”, ha dichiarato l’avvocato Alessandro Betti (nella foto), uno dei principali artefici della linea difensiva che ha smontato il castello accusatorio.
Sul banco degli imputati era finita una realtà a metà strada tra la legalità e il grigio, dove le vite di decine di migranti si sono intrecciate con i vuoti della normativa italiana sull’assistenza familiare. Ma il processo di Siena, almeno oggi, riscrive la storia: niente associazione, niente trama criminale. Restano solo responsabilità individuali, episodi circoscritti, una giustizia che stavolta – almeno sulle prove esibite – ha preferito la prudenza.
Andrea Bianchi Sugarelli