In una serata dove l’autunno sembrava entrare direttamente in sala, Castel Monastero ha ospitato una cena a quattro mani che ha unito due anime diverse della cucina italiana: quella intensamente mediterranea di chef Pasquale D’Ambrosio (7Pines Resort Sardinia) e quella profondamente territoriale, vegetale e stagionale di chef Davide Canella (Castel Monastero).
Li abbiamo incontrati poco prima dell’inizio della cena, mentre la cucina si preparava al servizio, e le loro interviste complete saranno visibili a “Sette Giorni” sabato 22 novembre alle 21. Da subito hanno raccontato la sintonia che ha dato vita a questo progetto gastronomico, ovvero due visioni, due identità, due interpretazioni del gusto che, per una sera, hanno danzato all’unisono nel cuore del Chianti. Il punto di partenza è stato un incontro, quasi naturale, tra territori che a prima vista appaiono lontani, ma che in realtà condividono una sensibilità comune: una Sardegna fatta di mare, erbe selvatiche, sapidità e vento, e una Toscana autunnale fatta di boschi, zucca, sottobosco e luce dorata. Su questa linea sottile, gli chef hanno costruito un dialogo gastronomico che non è stato un semplice alternarsi di piatti, ma un racconto continuo, intrecciato, fluido. Davide Canella, custode della filosofia culinaria di Castel Monastero, ha portato la sua lettura dell’autunno, come momento più autentico del resort: un tempo lento, ricco di prodotti intensi e di colori che cambiano ogni giorno. È da qui che nasce la sua scelta di piatti che parlano di terra, di calore, di materia. Pasquale D’Ambrosio ha portato il suo stile sensoriale, immediato, identitario, costruito intorno al mare e alla vegetazione mediterranea.
“Abbiamo creato un connubio reale tra Toscana e Sardegna – ha affermato Canella -. E poi c’è anche la Campania di Pasquale… alla fine è un viaggio in tre territori diversi che però condividono anima e sensibilità”. “Io porto il mare, lui porta la terra –ha aggiunto Pasquale D’Ambrosio – . Il mio stile è sensoriale, identitario. Davide parla con la lingua della Toscana. Così abbiamo unito il mare della Sardegna al vegetale della Toscana. E sorprendentemente funzionano benissimo insieme”. E ancora: “Sardi e toscani hanno prodotti diversi, sì, ma la stessa forza, la stessa anima. È da lì che siamo partiti”.
La cena si è aperta con una serie di amuse-bouche che, in pochissimi bocconi, hanno già raccontato il carattere dei due chef: un intreccio di cialde croccanti, creme sapide e note vegetali. Poi il tocco di Canella: zucca, miso e limone, un piatto che rappresenta perfettamente la sua interpretazione dell’autunno toscano. Crema, spuma, consistenze, dolcezza naturale, fermentazione e acidità: un equilibrio elegante, quasi pittorico. D’Ambrosio ha risposto con ciò che lui stesso definisce “il riccio che non ti aspetti”: un riccio di mare arrostito alla brace, sorprendente, intenso, accompagnato da salicornia, alghe, gambero rosso e un miso di patate che lo lega idealmente alla Toscana. Un piatto che profuma di coste, di legna, di vento. Il viaggio è proseguito con il piatto più scenico della serata: i bottoni con consommé, dove la superficie accoglie piccoli scrigni di pasta con farce delicate, mentre piccole sfere trasparenti aggiungono una nota di leggerezza e precisione tecnica. Poi il fusillone che incontra mare e profuma di limone, la spigola “Maritata” e di nuovo il sapore forte della nostra terra con il Piccione in Cera d’Api.
Prima del dolce, una pausa pulita e cristallina: il sorbetto di cachi e mela verde, con il profumo vivo di lime fresco grattugiato. Un respiro. E poi la Tatin. Una Tatin di pera interpretata con modernità, dove una crema vellutata viene stesa sul piatto come un disco, su cui linee verdi vegetali tracciano un disegno astratto. Equilibrio perfetto tra comfort e innovazione. La piccola pasticceria, infine, ha portato in tavola la parte più giocosa della serata: praline lucide, pâte de fruit agrumate, piccoli bignè croccanti e bocconi dolci che hanno concluso il percorso con una carezza.
Gli chef hanno sottolineato come entrambi condividano una passione particolare per le erbe, mediterranee o toscane che siano, e come ognuno porti sempre con sé l’ingrediente del cuore.
Alla domanda: “Che emozione sperate di lasciare agli ospiti?” La risposta, simultanea, è stata semplice: “Un ricordo. Un’esperienza che rimanga nel cuore e ritorni anche nei giorni successivi”.
E così è stato. A fine cena abbiamo avuto la possibilità di vivere uno dei momenti più sinceri e intimi della serata: l’ingresso in cucina, dove il dietro le quinte ha preso forma. Nella foto di gruppo realizzata in brigata, si respirava la soddisfazione di un lavoro corale, la complicità tra i due chef e l’energia di un team che, per una notte, ha trasformato la tecnica in emozione. La cucina — ancora calda di profumi, pentole e voce — ha rivelato la verità: i piatti vengono assaggiati in sala, ma nascono qui, tra mani, sguardi, attenzioni e silenzi. Ed è proprio lì che si percepisce il senso più profondo di una cena a quattro mani: non solo un menu, ma un incontro.