Siena, assolti in appello Benini e Giusti : cade l’accusa di diffamazione aggravata per i commenti sul Toscana Pride del 2018

È calato il sipario, almeno in secondo grado, su una vicenda giudiziaria che per oltre sette anni ha acceso il dibattito cittadino su libertà di espressione, limiti del diritto di critica e tutela della dignità personale.

Di Redazione | 10 Novembre 2025 alle 13:45

Siena, assolti in appello Benini e Giusti : cade l’accusa di diffamazione aggravata per i commenti sul Toscana Pride del 2018

È calato il sipario, almeno in secondo grado, su una vicenda giudiziaria che per oltre sette anni ha acceso il dibattito cittadino su libertà di espressione, limiti del diritto di critica e tutela della dignità personale. Con la sentenza emessa dal Tribunale d’appello di Firenze, Paolo Benini, ex assessore allo sport del Comune di Siena e Francesco Giusti, già segretario della Lega e oggi figura di riferimento del movimento Patto per il Nord – entrambi difesi dall’avvocato Luigi De Mossi che ha smontato punto su punto le motivazioni di primo grado – sono stati assolti dall’accusa di diffamazione aggravata dall’utilizzo dei social network perché il fatto non sussiste, dopo una condanna relativa a insulti a sfondo omofobico indirizzati al professore di Arezzo Francesco Simoni in occasione del Toscana Pride 2018.

 

Il caso: dalla foto al processo

 

I fatti risalgono al 16 giugno 2018, quando Siena ospitò una delle tappe del Toscana Pride. In quella giornata, il professor Francesco Simoni, insegnante in una scuola media dell’aretino, fu fotografato mentre, indossando ali da angelo, attraversava il centro storico del capoluogo toscano. L’immagine, condivisa pubblicamente su Facebook dall’allora segretario provinciale della Lega, Francesco Giusti, venne accompagnata dalla didascalia ironica “Farà coccodè?!?” parafrasando una delle tante gag che fanno i goliardi senesi. Il post divenne rapidamente virale, scatenando una serie di commenti, molti dei quali giudicati offensivi e discriminatori nei confronti di Simoni, sia per il suo abbigliamento che per la sua partecipazione al Pride.

Tra gli autori dei commenti figuravano anche Paolo Benini e altri senesi tra cui L.G. Benini, medico e allora consigliere comunale (in seguito assessore allo sport), rispose a un commento sui presunti “disturbi mentali” degli omosessuali pubblicando la copertina del DSM-5, il manuale internazionale delle patologie mentali; in altre circostanze, replicò con toni giudicati sarcastici a ulteriori provocazioni. L’altro senese, senza ruoli istituzionali o pubblici specifici, anch’egli identificato tra i partecipanti alla discussione, fu trascinato in giudizio insieme agli altri.

 

Il primo grado: condanna per diffamazione aggravata

 

Nel settembre 2024, il Tribunale di Siena aveva riconosciuto la sussistenza del reato di diffamazione aggravata, ritenendo che i commenti superassero i limiti della lecita critica per sconfinare in un attacco personale lesivo della dignità e della reputazione della vittima, aggravato dal movente omofobico e dall’utilizzo di un mezzo di amplificazione come il web. I giudici avevano disposto il pagamento di una multa di 900 euro ciascuno, la rifusione delle spese processuali e il risarcimento dei danni in favore di Francesco Simoni. Nelle motivazioni della sentenza, redatte dal giudice Jacopo Rocchi, si sottolineava che espressioni come “farà coccodè?” e la pubblicazione della copertina del DSM-5 travalicavano il diritto di manifestazione del pensiero per assumere la natura di “brutalizzazione e ridicolizzazione” della persona, connotate da un intento discriminatorio.

 

L’appello: assoluzione piena e caduta dell’accusa

 

La sentenza di secondo grado, resa nota oggi 10 novembre 2025, ribalta completamente il verdetto di primo grado perché il fatto non sussiste. La Corte d’Appello ha accolto le tesi difensive dell’avvocato Luigi De Mossi, che ha assistito personalmente Benini e Giusti e, insieme a Maurizio Zerini, quelle di L.G. Secondo i giudici di appello, pur riconoscendo la sgradevolezza e la potenziale offensività di alcune espressioni, non ricorrono gli estremi della diffamazione aggravata prevista dall’art. 595 c.p., né si configura la presenza univoca di un dolo discriminatorio tale da fondare la responsabilità penale degli imputati. Essenziale ai fini dell’assoluzione è stato il richiamo al principio di tipicità del reato e all’evoluzione giurisprudenziale in materia di libertà di espressione, anche nell’ambito dei social network. In attesa delle motivazioni ufficiali, è chiaro che la Corte abbia rilevato come, nel contesto specifico, i commenti – per quanto discutibili – si inserissero in un dibattito pubblico acceso e non fossero idonei a determinare un danno concreto e specifico alla reputazione della parte offesa, né a integrare l’aggravante dell’odio omofobico in modo inequivocabile. Contestualmente all’assoluzione, è stata revocata anche la condanna al risarcimento dei danni.

 

La soddisfazione della difesa

 

All’uscita dall’aula, l’avvocato De Mossi ha espresso soddisfazione per il conseguimento dell’esito del processo. La sentenza rappresenta un punto fermo sulla necessità di valutare caso per caso il confine tra diritto di critica e diffamazione, soprattutto nel nuovo scenario digitale.



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