Una vita in pista: l'intervista esclusiva a Carlo Baldi, penna illustre della Superbike

Baldi è uno dei più autorevoli giornalisti ed esperti di CIV e Superbike. Ha girato il mondo, ma la sua casa è a Castiglione della Pescaia. L'intervista esclusiva a cura di Alex Ricci

Di Redazione | 21 Ottobre 2021 alle 12:00

Una vita in pista: l'intervista esclusiva a Carlo Baldi, penna illustre della Superbike

Carlo Baldi, classe 1955, nato ad Abbiategrasso il 31 luglio, segno del leone. Dodici anni nel Mondiale Superbike, scrive per due dei maggiori magazine del settore, ufficio stampa di molti team nel corso delle stagioni, ed esperto di caschi, che ha costruito e commercializzato. Ha viaggiato tutta la vita tra Africa, Asia ed Europa. Sposatosi nel 1986, mette su casa a Castiglione della Pescaia (GR). Il suo posto preferito del calendario Superbike è Philip Island, la sua casa è Fuerteventura, dove vive tutt’ora perché dice: “Qui è estate tutto l’anno”. A me piace chiamarlo “Carlo l’Africano” per la sua lunga permanenza in Somalia che le è entrata dentro e la ricorda sempre con trasporto. Intervistarlo è sintomo di stima che si è accattivata in poco più di un decennio. Dalle risposte ne è emersa come sempre l’umiltà, la conoscenza, l’esperienza di un competente professionista che riesce a essere sincero, a tratti, commovente e sempre molto schietto.

Carlo, partiamo dall’inizio, come nasce la passione per le moto e quando?
La passione per le moto nasce con me perché non ricordo di non aver avuto passione. Quand’ero piccolo, mio papà aveva una ISO MOTO 150, una moto abbastanza famosa perché aveva due pistoni nello stesso cilindro, era stranissima, famosa e brutta da morire. Con questa scarrozzava mia madre e me, da Abbiategrasso a Ferrara e deve esser nata così, la passione, schiacciato in mezzo a mia madre e mio padre, da quel momento, non sono mai più sceso da una moto.

Hai viaggiato molto, Africa, Asia, quanto ha influito nel tuo percorso umano e professionale questa cosa?
Sicuramente molto dal punto di vista umano perché impari a non avere un posto fisso, sia come lavoro, sia come luogo in cui vivere. La casa diventa quella dove sei in quel momento, dove hai i tuoi affetti e può essere in India, Cina, Somalia, Arabia, Grosseto, Abbiategrasso o Settimo Milanese e sono contento che sia così perché non mi piacerebbe mai restare fermo in un posto. Mi piace cambiare, la novità, conoscere gente e persone nuove, lavori nuovi, la mia vita è sempre stata molto varia e sono contento che sia stata così. Ancora non è finita e vediamo cosa ci riserva il futuro.

Ti sei occupato di caschi a 360°. Lo fai ancora? Racconta cos’hai fatto?
In effetti, io nasco come “cascaro”, prima ancora che come scribacchino nel, settore racing. Sono stati proprio i caschi che mi hanno portato alle gare. Nel 1987 ho iniziato a lavorare in Vemar, sono entrato nell’azienda di Grosseto ed eravamo in quattro; il proprietario, due operai ed io. Quando me ne sono andato tre anni dopo, non per merito mio, ma c’erano duecentocinquanta persone che lavoravano alla Vemar caschi. Da lì, casco-pilota-moto, il passo è breve ed ho iniziato ad avvicinarmi veramente al mondo delle corse. Il primo pass, me l’hanno dato nel 1987 per andare a Magione, alla Sport Production, dove ho conosciuto persone tipo Salvatore Giorlandino, che conosco tuttora e che oggi è nel team Prodina. Con i caschi lavoro ancora, non più nel lato prettamente produttivo, non mi occupo più di produzione e omologazione. Ho lavorato con Vemar, Yes, Kiwi, Premier e ora con Caberg, LS2, Staz India, che non è conosciuta, ma è una delle aziende più grandi al modo e produce più di cinque milioni di caschi, HJC e ora, ho unito le due cose, il racing e il casco, occupandomi delle sponsorizzazioni. E’ molto importante e affascinante il mondo del casco. Ho scoperto poi che non è la parte più importante dell’abbigliamento di un pilota, che invece è la tuta; come tocchi terra, essa che fa la differenza. Puoi anche non battere il casco, ma la tuta, sicuramente sì.

Come sei entrato in Superbike e perché? Come nasce l’idea di scrivere per i team e poi il passo verso il giornalismo.
La Superbike è sempre stata la mia passione. Sono stato, grazie a Vemar, nel mondo della MotoGP, tra il 2003 e il 2004. Bello, chiaramente, però non mi piace. Non è un giudizio negativo, non piace a me, è un problema mio. Troppa gente, troppa confusione, troppo pubblico. Ore per entrare in autodromo. A me piace il CIV, la Superbike, che hanno dimensioni più umane. Appena ho potuto, ho scelto la Superbike e con Salvatore Giorlandino, che sponsorizzavo con i caschi quando correva, siamo rimasti in contatto e mi ha sempre detto: “Faremo qualcosa insieme”. Nel 2008 mi ha chiamato, lavorava nel team Honda Hannspree Althea, mi chiama: “Ci serve un ufficio stampa, che curi la comunicazione. Tu ha hai sempre fatto questo, perché non vieni e ci dai una mano”. Ho avuto il primo “pass” di lavoro, me l’ha dato il team Hannspree Althea, che poi nel tempo si è evoluto in Team Althea, che vinse il mondiale con Carlos Checa. Sono entrato come addetto ai lavori nel 2008 e ancora sono qui. Per quanto riguarda lo scrivere, io ho sempre collaborato con Moto.it, perché il proprietario di questo sito, quando ha terminato l’università, insieme a un suo amico, ha aperto il sito, per la compravendita di moto usate. Essendo due ragazzi molto intelligenti, oltre che due persone valide, hanno deciso di ampliarlo e farlo diventare un portale e hanno cominciato a chiamare le aziende di abbigliamento, di moto, ecc. Il titolare, Ippolito Fassati, mi raccontava che telefonava a un’azienda di caschi, diceva del sito e gli buttavano giù il telefono. Tra i pochissimi che lo ascoltavano e gli ha anche mandato dei caschi, di cui uno è ancora dietro la scrivania di Ippolito, sono stato io e da lì è nata la collaborazione. Gli ho dato una mano a entrare nell’abbigliamento, mi hanno chiesto di cominciare a scrivere e siamo ancora qui.

Il momento più triste e il momento più eccitante della storia della Superbike vissuti da te.
Il più triste, purtroppo non c’è storia, è quello del 21 luglio 2013 al Gran Premio di Mosca, quando morì Andrea Antonelli. Un amico, faceva parte del team Hannspreee Althea nel 2008, era un ragazzo che ho visto crescere ed era sempre con noi. In circuito, il sabato sera dopo le prove, veniva in sala stampa, prendeva il foglio dei tempi e li guardavamo insieme. Restava lì dieci minuti in tutto. Il sabato prima dell’incidente, rimase lì quasi un’ora a parlare, di tutto. Secondo me era venuto a salutarmi, nel senso che, m’è rimasto impresso questo fatto e dopo quella volta, non l’ho più rivisto. E’ sempre difficile poi quando manca un pilota. E’ appena successo con Dean Berta Viñales, che non conoscevo. Il giorno più bello non riesco a trovarlo perché sono veramente tantissimi. Ho provato tantissima gioia nel vedere piloti amici, vincere. La soddisfazione mia è sempre stata quella di vedere la soddisfazione degli altri. Quando ho visto il team Evan Bros. vincere il titolo con Krummenacher o quando ha vinto il titolo a Carlos Checa. Vedere i ragazzi di Colleferro che erano partiti dall’Europeo nel 2002 con Alessio Corradi e vederli sul tetto del mondo è roba da lacrime. Come il primo podio di Alessio Corradi.

Chi sono i personaggi che hai incontrato nel paddock che ti hanno conquistato di più?
Tanti. Come amicizia, Gordon Ritchie, che è il mio riferimento come giornalista da quando siamo qui. Parlando di piloti, i tre mostri, i tre campioni sono da sempre Checa, Biaggi e Rea. Parlando di gente nel paddock, tanti, tante persone “in gamba”. Più che il lato tecnico-sportivo, seguo il lato umano. Ho trovato tante persone interessanti, amici meno, perché l’amicizia è una cosa seria, ma ne ho trovate alcune. Il paddock è un ambiente difficile, tanti interessi, tante rivalità. Mi è comunque capitato di conoscere persone che hanno uno spessore. L’amicizia con Gordon non deriva solo dal fatto che siamo colleghi, ma anche perché, umanamente, siamo molto vicini. Mi è stato vicino in un momento difficilissimo ed è stato uno spartiacque tra gli amici veri e quelli solo di facciata o superficiali. In quel momento ho capito chi mi voleva bene.

Oggi sei riconosciuto come uno degli esponenti maggiori dell’informazione delle derivate di serie. Ricordiamo che una delle tue “case” è il CIV. Ti riconosci in questo?
Si, assolutamente è il CIV. Quando mi chiedono se vado a Vallelunga, io dico sempre: “Se non vengo io non corrono”. A parte le battute, ma a detta anche degli organizzatori, sono riuscito a essere parte integrante del CIV. In Superbike sono un giornalista che segue le gare, al CIV abbiamo collaborato con l’ufficio stampa, sono stato più che un inviato, proprio perché ci tengo molto. E’ il campionato nazionale, che lancia i giovani, penso a Bernardi che è arrivato al mondiale, ma tanti altri e non solo qui se pensiamo a Digiannantonio o Bezzecchi, per empio. Vedere tutti questi giovani ragazzini, Come Celestino Vietti Ramus che era veramente uno “gnomo” di bambino, bellissimo oltre che simpatico e ora è in Moto2. Mi piace far parte del primo motore d’Italia dello sport motociclistico. Nasce tutto da lì, ed è quello il campionato da cui decollano verso i mondiali. Essere, in minima parte, in quel mondo mi fa particolarmente piacere e ho cercato, nel mio microcosmo, di collaborare con la Federazione, a scopo gratuito, perché quello che posso, per il CIV, lo faccio sempre molto volentieri.

Ritengo che da te ci sia da imparare, che consiglio daresti a chi fa questo mestiere da meno tempo?
Io non ho molto da insegnare, posso solo dare la mia esperienza. Dovete essere mossi dalla passione, senza di quella, è inutile. Secondo me le cose che servono sono due o forse tre. La passione, perché, quando mi dicono che bello che vai alle gare, rispondo di sì, ma non entri in circuito il giovedì pomeriggio ed esci la domenica a tarda notte perché è bello. Devi avere la passione, altrimenti, dopo quattro giorni chiuso in circuito, diventi matto. La seconda cosa, è avere molta umiltà. L’umiltà di guardare tutti gli altri, sapendo che tutti ci possono insegnare qualcosa. La terza è la curiosità. Curiosità di essere informato su tutto, di cercare di sapere tutto, entrare in tutti i box, in tutte le tende, in tutti i team per imparare. Qui cambia tutto ogni giorno, ogni sessione. Questi sono i tre fondamenti, secondo me. E poi, la gioia di farlo, logicamente. Oltre alla passione, uno deve essere contento di farlo. Il giorno che, prendendo la valigia, mi lamenterò che devo andare a Portimao, l’appoggio in terra e rimango a casa.

E il giorno che smetterai cosa lascerai e ti mancherà?
Non lascerò nulla. Questo è un mondo particolare, quando sono arrivato nel 2008, in sala stampa, delle persone che ci sono ora, ne sono rimaste forse due, forse tre, tutti gli altri hanno smesso, hanno cambiato lavoro o sono andati in GP. Qualcuno che ha smesso è rimasto offeso, dicendo che nessuno l’ha più cercato. Quest’ambiente è così. Se io non vado a due gare, si dimenticano di me. E’ un mondo, talmente di corsa, dove tutto gira a trecento all’ora, per cui, se tu non ci sei, non si ferma. Qualcuno, gli amici, quelli possono ricordarsi, ma gli altri ti sostituiscono. Lascerò ben poco, spero qualche articolo che qualcuno si ricorderà di leggere e sicuramente il ricordo negli amici, che nominavo prima, ma con quelli si rimarrà sempre in contatto al di fuori delle gare. Mi mancherà tutto. Non farò l’errore che hanno fatto molti di staccare completamente e decidere che da domani non seguirò più le gare. E’ impossibile. Si può fare, ma si sta malissimo, perché è un mondo che è come una droga. Staccarsi dalle corse è difficile, dall’adrenalina, non quella dei piloti, ma anche quella che proviamo noi. Tu sai benissimo che quando finisce una gara, devi correre perché c’è da scrivere e devi fare tutto di corsa. E ti manca questo impegno che ti toglie quasi il respiro. Da una parte lo odi e dall’altra lo ami. Cercherò di non fare l’errore che hanno fatto molte persone che hanno detto basta, dicendo: “da domani è finito il campionato e basta”. E’ molto dura, mi sto già staccando, ma lentamente, facendo sempre meno gare, fino a quando alla fine ti chiederò un pass per venire a Phillip Island.

Sei felice?
Parlando di lavoro, forse sì, ma come ben sai, da quando è mancata mia moglie, la mia vita è diventata molto difficile. Tiriamo avanti.

Alex Ricci



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