I figli per Fazio Fabbrini - La presentazione di Balestracci

Di Redazione | 15 Agosto 2016 alle 13:54

I figli per Fazio Fabbrini - La presentazione di Balestracci

Altra medaglia di civica riconoscenza a Fazio Fabbrini

La seconda medaglia di civica riconoscenza è stata assegnata a Fazio Fabbrini,  la cui candidatura è stata presentata dal sindaco Bruno Valentini, in qualità di membro del Concistoro del Monte del Mangia, per l’emanazione della storica ordinanza che istituì il divieto di circolazione nelle vie e nelle piazze del centro, “prendendo così una rivoluzionaria decisione che, 50 anni fa, fece di Siena la prima città europea a chiudere al traffico il centro storico”. Originario di Abbadia San Salvatore, fu antifascista e partigiano combattente con la formazione “Mencatelli” nella battaglia di Monticchiello dell’aprile 1944 e si trasferì a Siena dopo la guerra per ricoprire il ruolo di segretario del movimento giovanile della Federazione provinciale del Partito Comunista Italiano. Eletto sindaco di Siena nel 1965, Fabbrini si contraddistinse anche per la progettazione del Centro Congressi all’interno della Fortezza Medicea, affidata ad Alvar Aalto. Nel 1968, a soli 42 anni, conclusa l’esperienza di primo cittadino, venne eletto senatore della Repubblica e, nel 1970, membro del Parlamento Europeo, trovandosi a collaborare con personaggi del calibro di Giorgio Amendola e Nilde Jotti. Dal 1976, lasciata l’attività parlamentare, Fabbrini tornò a dedicarsi a Siena entrando a far parte della Deputazione del Monte dei Paschi e scrivendo volumi sulla Resistenza nel territorio senese.

Fabbrini non è potuto essere presente alla cerimonia, ila medaglia è stata ritirata dai figli.

Presentazione di Duccio Balestracci

“Ah, lei viene da Siena? Bellissima città. Mi hanno detto che ora è anche più bella perché hanno chiuso il traffico. E’ vero?” “Eh sì, è vero. L’ho fatto chiudere io”. Il dialogo non è una pièce di teatrino comico: è la conversazione realmente avvenuta a Londra fra un parlamentare britannico e Fazio Fabbrini, ormai da tempo non più sindaco di Siena. La decisione – presa nel 1965 – aveva fatto scalpore: ne avevano parlato i giornali di tutto il mondo; il Times aveva dedicato un ammirato articolo, nel maggio del 1965, alla rivoluzionaria decisione. Se quella di Fabbrini era stata una scommessa ardimentosa, l’eco che aveva avuto dimostrava che quella scommessa era stata vinta, perché per tutti, ormai, Fazio era il sindaco che aveva tolto, per primo, le auto da un centro storico di una città d’arte italiana.

E sì che Fabbrini, sindaco, era diventato, non diciamo per caso, ma certamente per una di quelle inaspettate curvature della vita di una persona che viene chiamata a fare una cosa che era l’ultima che si era immaginata di fare. Quando fai il politico di professione – racconta egli stesso – accetti di fare quel che reputano che tu sia adatto a fare. Ma in quel 1965 in cui fu eletto sindaco, Fabbrini era, appunto, in tutt’altre faccende affaccendato. Era a Roma, membro del comitato centrale del Partito Comunista ad occuparsi prevalentemente di problemi economici: incarico che aveva assunto a 36 anni (è nato il 5 febbraio 1926) dopo una gioventù che lo aveva visto partigiano della formazione “Mencatelli” sull’Amiata, poi segretario del movimento giovanile comunista di Siena, poi docente di economia politica alla scuola di partito delle Frattocchie. Ma in quel 1965, a Siena, non c’era accordo sul nome da designare come candidato a succedere al sindaco Ugo Bartalini. La dialettica politica, in città, era al calor bianco: la discussione coinvolgeva i partiti che avevano tradizionalmente formato la maggioranza di governo comunale e si irradiava all’interno stesso di essi in confronti serrati e anche aspri.

Il nome di Fabbrini fu quello su cui si trovò, alla fine, convergenza e che rese possibile l’accordo per scegliere il primo cittadino e Fazio tornò in Toscana. Fabbrini, peraltro, sarebbe rimasto sindaco per breve tempo, appena un anno e mezzo, dal gennaio 1965 al luglio 1966, prima che le turbolenze politiche consegnassero il comune a due anni e mezzo di commissario prefettizio. Ma in quell’anno e mezzo Fabbrini fece vedere di che pasta era fatto. Si trovò subito ad affrontare un problema delicatissimo: tutelare l’intuizione di Piccinato che, nel suo piano regolatore di metà degli anni Cinquanta, aveva individuato nelle aree verdi di Siena una caratteristica urbanistica, storica, identitaria da mantenere e valorizzare.
Le aree verdi comprese dentro le mura, non dimentichiamocelo, si erano salvate per puro caso dalla loro cancellazione. Se non fosse scoppiata la guerra sarebbe probabilmente andata a buon porto la sciagurata proposta di edificarle in modo da contenere, come si disse, tutta Siena entro le mura. Quando, tornata la pace, c’era stato bisogno di studiare l’assetto che la nuova città avrebbe avuto, il piano regolatore affidato a Luigi Piccinato aveva intuito che le aree verdi erano una caratteristica storica e un valore da salvare.

Ma a metà degli anni Sessanta la tentazione di rimettere mani e cemento sulle valli era tornata a farsi sentire. Aleggiava la proposta di tagliare le mura all’altezza di via Baldassarre Peruzzi e di costruire uno stradone che tranciando la Valle di Follonica permettesse alle auto di raggiungere San Francesco.

E fu proprio Fabbrini che lanciò un appello che divenne uno slogan e un grido di battaglia: “Le valli verdi non si toccano”. La sua determinazione fu vincente, e le idee di introdurre varianti o di rimettere in discussione le acquisizioni del piano Piccinato rientrarono.

Per vincere la battaglia sulle aree verdi, Fabbrini aveva dietro la maggior parte dell’opinione pubblica cittadina; poteva contare sull’appoggio politico dei partiti che sostenevano la sua giunta; si giovava della collaborazione di assessori giovani, competenti e agguerriti come Augusto Mazzini. Ma Fabbrini aveva anche la consapevolezza che battaglie come questa della salvaguardia dell’immagine e della sostanza culturale di una città non si portano in fondo se non si aggrediscono le motivazioni prime che le scatenano.

E la motivazione prima era costituita, in quella metà di anni Sessanta, dal problema del traffico cittadino. Siena era cambiata: la crisi della mezzadria e l’esodo dalle campagne avevano creato un inurbamento che stava trasformando la sua facies suburbana (sono – questi – anche gli anni in cui c’è da governare lo sviluppo urbanistico a nord della città, tenendo sotto controllo speculazione e abuso del territorio). Al tempo stesso, il boom economico del quale l’Italia stava godendo, aveva creato un problema che Piccinato non era stato in grado di prevedere: la motorizzazione privata di massa.

Andava risolto il problema del traffico nella città, se si voleva, al tempo stesso, salvare la qualità della vita di Siena e, con questo salvataggio, creare il presupposto anche per blindare l’intangibilità delle aree verdi e della conformazione urbana di Siena.

Già Aldo Cairola, per parte sua, in un articolo (per la “Balzana”) del 1962 aveva messo in luce l’assurdità della presenza del traffico veicolare in strade che avevano un impianto previsto per pedoni e tutt’al più per cavalli e carri, ma che erano improponibili per le automobili e per l’effetto che le emissioni dei motori creavano sulle delicate, centenarie, architetture della città. Nello stesso anno, sensibile a questo allarme, l’allora sindaco Bartalini aveva proibito che si parcheggiasse in Piazza del Campo dove, fino a quel momento, si poteva tranquillamente lasciare l’auto sulla parte lastricata, con il muso perpendicolare all’ammattonato.

C’era, del resto, a sostenere l’intuizione di Fabbrini e dei suoi collaboratori, un movimento importante che si batteva per lo stesso scopo, Italia Nostra, che offrì, nell’occasione, una sponda di fondamentale importanza anche grazie alla convinta adesione al progetto da parte di un intellettuale esponente dei quadri dirigenti di questa associazione, l’architetto Achille Neri.

Fabbrini sapeva perfettamente che la sua decisione avrebbe scatenato l’inferno. Cosa che puntualmente accadde.

I commercianti (non tutti, ma parecchi sì) tirarono giù le saracinesche in segno di protesta. Gli automobilisti (non tutti, ma parecchi sì) inscenarono una rumorosa manifestazione sfilando in auto per le vie cittadine e dando vita ad un concerto di clacson sotto le finestre del palazzo comunale. Al sindaco, alla giunta, ai loro sostenitori fu rinfacciato di tutto. C’erano, a far fronte contro il provvedimento, l’Associazione Industriali, i commercianti, l’Ordine dei Medici. Per parte loro, l’Automobil Club e l’Opera Metropolitana si appellarono addirittura al Ministero dei Lavori Pubblici e la giunta dovette far ricorso a fior di giuristi per dimostrare la legittimità della scelta.

La decisione non fu rimangiata: il blocco del centro storico rimase, anche se ci furono dei ripensamenti e parziali marce indietro quando al comune arrivò il commissario prefettizio. Tornata l’amministrazione in mano a giunte regolarmente elette, la chiusura fu riconfermata e anzi, nel 1972, sindaco Roberto Barzanti, fu addirittura estesa.

Nel frattempo, però, la scelta aveva fatto scuola. Nel 1973 i più noti urbanisti convennero a Siena per studiare il modello di città proposto dal piano Piccinato coniugato con la chiusura del traffico. L’anno successivo, proprio Fabbrini, in un intervento al Parlamento Europeo indicava il modello senese come un manifesto al quale ispirarsi da parte dell’intera Europa, forte anche della constatazione, come egli stesso dichiarò, che, a quella data, la decisione era ormai condivisa anche da quanti, all’inizio, vi si erano opposti.

Fabbrini aveva un altro sogno, come sindaco, ma questo non riuscì a realizzarlo: dotare Siena di un Palazzo della Cultura (non palazzo dei congressi, come fu definito con l’intento di sminuirne la portata) da affidare ad un architetto di fama mondiale, il finlandese Alvar Aalto, che ne aveva identificato la collocazione nell’area della fortezza, in una posizione di dialogo architettonico ed urbanistico con il tessuto storico antico di Siena. Nelle idee dei progettisti doveva essere un centro “produttore” di cultura, un polo che catalizzasse le ricchezze culturali di una città che poteva contare su realtà quale l’Università e l’Accademia Chigiana; che disponeva di un serbatoio di ricchezza architettonica e artistica come poche altre.

Il sogno non si realizzò. Questa volta non si creò nessuna trasversale sinergia virtuosa come era stato per la difesa delle aree verdi. E il progetto abortì. E Siena perse un’occasione. Importante. Non la sola importante che abbia perduto, ma certamente una di quelle molto importanti.

Poi la vita di Fabbrini prese altre strade. Nel 1968 fu eletto senatore (uno dei più giovani) e dopo pochissimo fu designato, con altri esponenti del suo partito che portavano nomi quali Giorgio Amendola o Nilde Jotti, a far parte del gruppo italiano al parlamento europeo. Lì continuò i suoi amati studi di politica economica e ciò che aveva studiato e insegnato poté, poi, metterlo in applicazione pratica dal 1986, quando lasciò l’attività di parlamentare per entrare a far parte della deputazione amministratrice del Monte dei Paschi.

Il suo sarebbe, anche solo per questi impegni, un palmares di prim’ordine. Ma per noi, per Siena, per tutti, resterà sopratutto il sindaco che ebbe il coraggio o l’incoscienza di regalare ai senesi una città a misura d’uomo perché, come ebbe a dichiarare egli stesso, era dovere suo e degli altri come lui farsi carico della “responsabilità di salvaguardare e valorizzare i tanti centri storici delle città che la storia ha affidato alla nostra sensibilità e alla nostra custodia [e che] rappresentano una testimonianza viva e ammirevole della nostra civiltà”.

Era una grande lezione.

E’ una grande lezione.

Anche oggi che il centro resta chiuso al traffico, ma altri non meno gravi problemi convocano amministratori e cittadini per salvaguardarlo.
Il centro non muore solo di traffico. Fabbrini ebbe il coraggio di eliminargli questa causa di morte. Che la sua lezione serva per eliminargli le altre, non meno pericolose, cause attuali.



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