La lettera d'amore di Natalie Portman: "Quel mese in Toscana sembrò una vita intera"

Sull'ultimo numero di Vanity Fair è presente la lettera dell'attrice rivolta alla Val d'Orcia, dove ha trascorso un intero mese nell'estate 2014

Di Redazione | 31 Maggio 2020 alle 10:20

La lettera d'amore di Natalie Portman: "Quel mese in Toscana sembrò una vita intera"

Una vera e propria lettera d’amore alla Toscana, e in particolare al territorio della Val d’Orcia. Così l’attrice Natalie Portman, premio Oscar come miglior attrice protagonista nel 2011 per “Cigno Nero”, ha descritto il suo breve ma intenso periodo nel territorio senese nell’estate 2014, pubblicato nel numero speciale 20/21 di Vanity Fair, in edicola fino al 2 Giugno 2020

Ecco il teso integrale della lettera:

“Nell’estate del 2014, la nostra giovane famiglia trascorse un mese in Toscana. Era la nostra prima estate in Europa, diciamo che avevamo un mese intero senza lavoro e scuola. Ci eravamo trasferiti di recente a Parigi per via degli impegni di mio marito e mio figlio aveva finito il primo anno di asilo in francese, ed era eccitante pensare di avere quattro settimane davanti a noi senza nulla da fare se non stare insieme.

Prendemmo un volo breve per Firenze e guidammo fino alla casa che mio marito aveva affittato per noi.

Ero già stata in Italia prima di allora: a 12 anni ero stata mandata a Milano per promuovere il film Léon. Ricordo che m’infilavano scarpe Ferragamo di fronte alle telecamere.

A 19, girai Star Wars: Episodio II – L’attacco dei cloni a Caserta, dove la gente del posto urlava poesie d’amore al mio collega biondo quando camminavamo per andare al lavoro, ed eravamo sul lago di Como, quando, dopo una notte fuori, la macchina dei miei amici si ruppe perché avevano messo nel serbatoio gasolio, pensando fosse benzina e non, cosa che, in realtà, era, carburante diesel.

A 24, feci un viaggio di vero studio con amici, visitando, nelle nostre ricerche, Roma, Firenze e Venezia e notando l’arte e i sapori differenti tra le città. Mangiammo carciofi fritti a Roma, gelato a Firenze, pasta speziata a Venezia. Vedemmo la statua del David, Raffaello, Michelangelo, Beato Angelico, Tiziano, Botticelli, Piero della Francesca. Monasteri con affreschi in tutte le stanze dei monaci. Accendemmo le candele Chanukkah con i rabbini Lubavitch nel ghetto di Venezia, e, ubriachi, saltammo sui canali nella notte appena fresca, perdendoci nel labirinto della città sull’acqua.

A 29, ritornai a Venezia per l’anteprima del film Il cigno nero, al festival, con addosso un abito da sera rosso. Nei momenti liberi, quello che oggi è mio marito e io scappavamo di corsa per andare alla Biennale, a vedere in che modo gli architetti immaginavano il nostro mondo.

Ma nonostante tutte quelle esperienze, nulla mi aveva preparato a un intero mese in Toscana.

Quando arrivammo alla casa, la prima cosa che mi colpì fu il caldo: l’umido, la luce diretta del sole, bianca, accecante. Le strade erano vuote. «Guarda, persino gli italiani se ne vanno in questo periodo dell’anno, che cosa avevi nella testa?», sgridai mio marito. Trascorsi il primo giorno nascosta nella camera da letto con i muri d’argilla, a leggere Elena Ferrante, fermandomi solo per rimproverare di nuovo mio marito per non aver affittato una casa con l’aria condizionata. «È l’Italia», mi diceva, «non hai bisogno dell’aria condizionata perché è il posto più bello del mondo». Lessi più Ferrante, giocai con i cubi, all’ombra, con nostro figlio di 4 anni, e m’immersi nell’acqua ghiacciata della piscina, un quadrato grande e funzionale fuori dalla finestra della camera da letto. Sobbollivo, forse per il caldo, forse per la violenza coinvolgente della prosa della Ferrante, forse per la mia incapacità di assorbire la bellezza del posto.

Ma dopo che il giorno finì di cuocere, scoprimmo il dono della notte.

Viaggiammo in macchina, noi tre, lungo la Val d’Orcia, al tramonto. La luce e la foschia, e il colore dell’incandescenza del giorno che si disperdeva, ci preparò per il viaggio nel tempo che stavamo per fare. Guidammo fino a Pienza, il paese più vicino alla nostra casa rovente. Passeggiammo lentamente lungo i vicoli attraversati dai fili della biancheria messa a stendere, spostandoci di lato per far spazio, lungo la stradina, a una nonna con i suoi nipotini, i bambini in bicicletta, come se fossero usciti da un film di De Sica. Arrivammo presto nella piazza, uno spazio grande a forma di trapezio con una bella chiesa su un lato, e un piccolo bar sull’altro. Era piena di gente. Gli italiani non se n’erano andati dal paese, riemergevano alla sera. I bambini giocavano a calcio nella piazza, ridendo e urlando in quella lingua bellissima. Nostro figlio si unì all’istante, grazie al linguaggio universale dell’infanzia: il calcio. Bevemmo vino al bar sul lato della piazza. Il proprietario ci fece entrare per mostrarci i suoi tesori del posto, e nostro figlio era libero di giocare, al sicuro da ogni pericolo. Il cielo era illuminato da cerchi luminosi e roteanti che un commerciante vendeva all’angolo della piazza e che i bambini lanciavano in alto verso le stelle.

Il tempo si era ugualmente fermato e dilatato. Ci sentimmo come trasportati in un’altra epoca, dove le famiglie ancora vivevano nello spazio degli stessi quattro isolati, i ragazzini potevano giocare liberi nelle strade, e la nonna era le persona più amata della famiglia, insieme ai bambini. Sconosciuti facevano buffetti sulla guancia di nostro figlio, giocavano a palla con lui, così che noi potevamo cenare seduti, e ci dicevano in italiano parole che, sono quasi certa, significavano: vostro figlio è il bambino più bello, intelligente, divertente che abbiamo mai conosciuto. Ma non parlo italiano, per cui è solo una stima ragionata.

Andammo in quella piazza tutte le sere per un mese. Mi rendo conto adesso che gli italiani hanno imparato a dominare il tempo, la nostra più grande risorsa e anche il nemico più minaccioso. Quelle serate sembrava che durassero un’eternità, e mi sentivo come se ci trovassimo nel 1952. La magia del posto mi ammorbidì, e presto cominciai ad abbracciare mio marito piuttosto che rimproverarlo, ammirando il vulcano che aveva imparato a fare per preparare gli gnocchi, una montagnetta di patate con un uovo al posto della lava. Continuai a leggere Ferrante, con la faccia al centro del ventilatore che avevamo comprato in un negozio della zona, fino a che non fui costretta a smettere, con angoscia, perché il quarto romanzo del ciclo napoletano non era ancora uscito in inglese. Nostro figlio imparò a indossare la maglietta della squadra giusta per andare in piazza alla sera (un indizio: non quella della Juventus) e diventò amico di bambini con i quali non scambiò mai una parola, grazie solo al linguaggio dei piedi. E quel mese sembrò una vita intera. E non avrei mai voluto tornare a casa, anche se avevamo l’aria condizionata”.



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