Quando Picasso fu incaricato di dipingere il Drappellone

Di Redazione | 18 Ottobre 2018 alle 19:30

Quando Picasso fu incaricato di dipingere il Drappellone

“Rifare Picasso”, un racconto di Vincenzo Coli, illustrazioni di Fabio Mazzieri e Cesare Olmastroni

“Rifare Picasso” è un racconto di pura fantasia scritto nel 2004 dal giornalista e scrittore Vincenzo Coli e comparso al tempo su una rivista locale. Si ipotizzava che alla fine degli anni sessanta il comune di Siena avesse commissionato un drappellone a Pablo Picasso. Quel racconto ha avuto una storia curiosa. Qualche anno fa Fabio Mazzieri, pittore e animatore culturale molto apprezzato, autore del “cencio” del 2 luglio 1985, stava preparando Librartis, mostra del libro d’artista, manufatti sul tema in legno, carta, metalli e tessuti, e volle riesumare questa storia. Commissionò a Coli la riscrittura a pennarello su un quadernone di carta porosa stile primi Novecento e ne illustrò tutte le pagine, affidando le conclusive al talento di Cesare Olmastroni, pittore pure lui autore di due drappelloni, luglio 1982 e agosto 2013. La mostra, che ebbe un certo successo, viaggiò oltreatlantico fino al New Jersey, e quell’esemplare unico di libro ora è custodito insieme alle altre opere nella Biblioteca Giuliano Briganti al Santa Maria della Scala.

Oggi lo riproponiamo per almeno due buoni motivi. Perché è particolarmente attuale (quanto si è discusso quest’anno sul problema dell’iconografia paliesca nel drappellone, sconfinando nella disputa teologica?) e perché rende omaggio a Cesare, artista di qualità eccelsa e uomo straordinario, che a un anno e mezzo dalla scomparsa manca moltissimo ai suoi tanti amici e alla città intera. Buona lettura.

“Il Vecchio portò il dito indice sulla punta della lingua. Un filo di saliva bagnò il polpastrello, che il sedimento di colore tra le creste di epidermide aveva reso abrasivo, abbastanza da ottenere l’effetto chiaroscuro: bastava strofinare leggermente la linea di grafite sulla superficie della carta. Il disegno – un nudo di giovane donna supina – sarebbe diventato una serigrafia. Da più di sei mesi l’uomo non affidava alla fatica del pennello le sue fantasie erotiche. Una pigrizia che a quasi novant’anni poteva permettersi. La settimana precedente, davanti alla cinepresa dell’amico Orson Welles – “Mi serve per un film sui grandi falsari” era stata la richiesta del regista – aveva finto di ritoccare un olio su tela, viso femminile lasciato incompiuto dai tempi del periodo blu, una specie di portafortuna. Si grattò il cranio calvo e spellato da sole, e il leggero prurito che da sempre, chissà perché, ne accompagnava lo slancio creativo, si trasferì all’altezza della pancia, pure gratificata da un energico massaggio. Durante l’estate lavorava sempre restando in mutande, nel suo atelier di Ibiza.

La bella segretaria si affacciò sulla porta.

“Señor Pablo, stanno arrivando gli italiani annunciati dal console”.

“Bueno, Maribel. Falli accomodare nel patio”.

Dalla finestra dello studio vide i due uomini: vestiti molto formalmente in giacca e cravatta, arrancavano lungo il viottolo che dalla spiaggia portava in alto, verso la villa. Li accolse seminudo nella penombra del terrazzo.

Il più anziano dei due, un cinquantenne tozzo, sudato e con gli occhiali scuri, si presentò con la giusta deferenza e il tono della voce enfaticamente impennato sulle iniziali maiuscole.

“Maestro, è un grande onore per noi. Sono Fulgenzio Gillas, Critico d’Arte”. E indicando l’altro: “Le presento il Dottor Amedeo Panizza, Assessore alla Cultura del Comune di Siena”.

“Siena, Toscana, Italia – sfruttò il traino l’Assessore, grassoccio sulla quarantina, gran ciuffo di capelli neri sul naso prominente – I miei omaggi, Maestro. Come Lei sa, la Toscana ha dato i natali a Giotto, Leonardo, Michelangelo, Botticelli, Raffaello…”

“Raffaello è nato a Urbino…” corresse il Vecchio, gli occhi stretti come due fessure.

“Sì, naturalmente, Maestro” deglutì l’Assessore. Il Critico alzò gli occhi al cielo: “Ehm, immagino che il nostro Console le avrà spiegato…”

Maribel planò sul momento di impasse recando tre bicchieri e una caraffa di limonata fredda, che versò con movenze eleganti.

Il Vecchio ne bevve appena un sorso.

“Facciamola breve, signori. Adelante. Voi volete da me un dipinto su stoffa, un drapeau, un pallium, un palio, come lo chiamate. E’ vero?”

“Esatto – rispose pronto l’Assessore – sarebbe un grande onore per la nostra festa, alla quale naturalmente la invitiamo fin da ora…”

“No, no – il Vecchio alzò la mano a schermirsi, e per la prima volta abbozzò un sorriso – Da anni non mi muovo dalle Baleari e dalla Costa Azzurra… Gracias, vi ringrazio lo stesso. Vediamo se posso accontentarvi. Venite con me.”

Li guidò nell’atelier, dove prese a frugare tra tele e cornici, barattoli di colori e pennelli, tutti ammassati in apparente disordine. Trovò subito quello che cercava.

Questo è uno studio dalle Demoiselles d’Avignon. Potrebbe andare?”

I due gettarono un’occhiata al quadro e si guardarono perplessi.

Claro que no ve gusta. Allora questo…” – e da un angolo polveroso estrasse un vecchio cartone – E’ un bozzetto preparatorio per Guernica”.

Il Critico tossicchiò imbarazzato.

Allora questo acquerello – tirò via da uno scaffale un involto in carta giallastra, che aprì disinvoltamente – E’ la prima versione mai esposta al pubblico della Tauromaquia. Esto ve gusta?”

“Ecco, il problema è ….” L’Assessore non sapeva come cominciare.

“Vede, Maestro – lo soccorse il Critico – forse il Console non si è spiegato bene. Il Palio di Siena ha la sua iconografia precisa, dei modelli di rappresentazione secolari e immutabili nel tempo. Con tutto il rispetto, le opere che ci ha mostrato sono bellissime, ma, come dire, ehm, non c’entrano nulla. Abbiamo con noi – estrasse da una cartella due opuscoli e un libretto – un Regolamento, uno Statuto e un saggio sui Palii nella storia. Se volesse prenderne cortesemente visione…”

Depose il tutto su un tavolo, con cautela.

Il Maestro sospirò, quasi divertito. “E’ estate signori, tempo di bagni e di siesta. Non mi va di lavorare. Tornate in novembre, ma non qui: nella mia casa di Vallauris, sulla Costa Azzurra. Forse troverete quello che cercate”.

Una sera d’autunno i due italiani li riportò la pioggia, che si rovesciava sui tetti di Vallauris seguendo i capricci del vento. Scesero dal taxi e persero tempo a cercare l’ingresso della villa, poco appariscente e sottratta agli sguardi indiscreti dalle quinte ingiallite degli alberi.

“Ah, los italianos! Vi aspettavo. Vamos! – esclamò il Vecchio allegramente, quando se li vide davanti, completamente fradici – Ma prima asciugatevi davanti al caminetto”.

Appena furono presentabili, Maribel, la stessa ragazza di Ibiza, li introdusse nella grande sala. Su un tavolo in legno di noce, una lunga banda rettangolare di velluto nascondeva qualcosa.

Il padrone di casa fece segno agli ospiti di avvicinarsi; poi strinse tra indice e pollice di ambedue le mani i pizzi della stoffa, e con un gesto ampio e melodrammatico aprì il sipario.

“Oohh…” Los italianos erano incantati. Su un supporto luminoso di seta bianca, un’epifania trionfante di ricami gialli, rosso carminio, azzurro cobalto, violacei e verde acquamarina, tratti fini e cangianti, intersecavano addolcendola la risoluta compattezza delle linee scure, cui spettava la razionalità della trama.

Il Vecchio era compiaciuto: “Aqui està el milagro, il miracolo che si rinnova: la fiesta, l’amore sacro e l’amor profano, insieme per sempre.” E tacque, spiando la reazione dei committenti.

Il primo a riaversi fu il Critico, che si avvicinò al manufatto e … “Straordinario, Maestro, meraviglioso. La fluidità della pennellata, l’accostamento geniale dei colori. Sono commosso, anche a nome dell’Assessore. Solo che…”

“Solo che?” L’uomo che chiamavano Maestro inarcò le sopracciglia.

“Ecco, mi scusi, sa, ma è la mia professione… Non mi è ben chiara la dislocazione della Madonna: credo sia questo grumo color turchese, il mantello suppongo, che è molto bello ma non è proprio il punto di azzurro previsto dal Regolamento, articolo 4 comma c. E poi non vedo la corona. Non solo: la Madonna sta troppo in basso. Mentre, Lei mi insegna, essendo assunta in cielo dovrebbe stare in alto, sopra le nuvole. E poi, mi scusi ma non vedo i cavalli: questi così magistralmente accennati mi sembrano tori. Eh sì, hanno le corna…”

L’Assessore lo tirò per il fondo della giacca. Invano. Nessuno poteva impedire al Critico di fare il suo mestiere.

“… e poi le Contrade. Mi perdoni, Maestro, ma i simboli delle Contrade dove sono? L’articolo 7 parla chiaro: l’iconografia tradizionale prevede che…”

Il Vecchio, gli occhi neri come tizzoni, lo interruppe bruscamente:

“Maribel, tavolozza e pennello! Adelante!”

Quando la ragazza glieli ebbe consegnati, appoggiò lievemente l’una sull’avambraccio destro e accolse l’altro con la mano sinistra; davanti ai due ospiti impietriti, dopo aver attinto ai colori, con movimenti secchi sparò in rabbiosa sequenza linee secanti e chiazze feroci sull’ordito, impastando le tinte e confondendo i segni delicati del dipinto. Mentre con la voce irata e sempre più tonante sacramentava: “Madre de Dios, spagnoli e italiani hanno combattuto due guerre civili, si sono fatti ammazzare dai loro fratelli e li hanno ammazzati. Per cosa l’hanno fatto? Por la libertad, per difendere la libertà di pensiero e di espressione. Ecco. Volevate il vostro Picasso? Olvìdenlo! Dimenticatelo!”

Ultimato lo scempio, abbandonati sul pavimento tavolozza e pennello, consegnò il panno devastato alla ragazza: “Quémalo, Maribel! Brucialo!”. E uscì dalla sala senza salutare.

Agli italiani, basiti, non restò che tornare in strada, a cercare un taxi sotto la pioggia.

Il giovane pittore Cesare Olmastroni si concentrò sul grande drappo di seta che aveva fissato con cura a un supporto. Ripensava alle raccomandazioni dell’Assessore: “Tutta la città ci guarda, non possiamo deludere le attese. Siamo nelle sue mani”.

Sfogliò per l’ennesima volta il catalogo completo delle opere del Maestro: arlecchini, saltimbanchi, periodo rosa, cubismo. E consultò il taccuino degli appunti lasciatigli dal Critico, per quei pochi secondi in cui aveva potuto memorizzare il Capolavoro Perduto. Infine ripassò mentalmente i canoni della tradizione: le alucce degli angeli, le spennacchiere dei cavalli, il sorriso della Madonna…

“Si fa presto a dirlo… rifare Picasso…” borbottò. E mentre la matita si muoveva leggera sul cartoncino per catturare i primi abbozzi, sentì un prurito leggero, il solito che provava sempre quando dipingeva, partire dalla sommità del cranio e scendergli verso la punta delle dita con l’allegria insolente di un regalo divino”.



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